giovedì 29 agosto 2013

Stralcio di intervista narrativa autobiografica ad Ernest Hemingway!!!











Riesce a non pensare al lavoro quando non è alla macchina da scrivere?Certo. Ci vuole un po’ di disciplina per riuscirci, e questa disciplina va imparata. Non c’è altra soluzione.
Quando riprende a lavorare da dove ha interrotto il giorno prima, fa già una revisione del testo oppure aspetta di aver concluso tutto?
Ogni giorno, prima di ricominciare, rivedo il testo fin dove sono arrivato e quando ho finito lo rileggo interamente. Poi posso di nuovo correggerlo dopo che è stato battuto a macchina ed è scritto chiaro. L’ultima occasione sono le bozze. Meno male che ci sono tutte queste opportunità.
E le revisioni che fa sono pesanti?Dipende. Di Addio alle armi ho riscritto la fine, l’ultima pagina intendo, trentanove volte, prima di trovare una soluzione che mi soddisfacesse.
Cos’è che non la convinceva?Non riuscivo a mettere le parole così come volevo.
È la rilettura che smuove il flusso creativo?La revisione di conduce in un punto in cui non puoi non andare avanti, e questo vuol dire che sei già un passo avanti. Intanto c’è sempre altro che bolle in pentola.
Ma capita qualche volta che l’ispirazione venga a mancare?È ovvio, ma se ti fermi quando sai cosa accadrà dopo, vuol dire che puoi proseguire. Una volta che hai iniziato, il gioco è quasi fatto, le parole arriveranno.
Sostiene Thornton Wilder che gli scrittori adottano alcuni stratagemmi che li aiutano a concentrarsi e ad affrontare il lavoro di tutti i giorni. Lei gli avrebbe riferito che è sua abitudine fare la punta a venti matite.
Non ho mai posseduto venti matite tutte insieme. Quando arrivo a consumarne sette n.2 è segno che la giornata di lavoro è stata molto proficua.
Quali sono i luoghi dai quali ha tratto i maggiori vantaggi il suo lavoro? Uno deve essere l’albergo Ambos Mundos, a giudicare dai libri che lei ha scritto lì. Oppure l’ambiente influisce poco sulla sua scrittura?L’Ambos Mundos a l’Avana era un ottimo posto per lavorare. È un luogo meraviglioso, quellaFinca, o perlomeno lo era. Ma sono stato bene ovunque, intendo dire che sono riuscito a lavorare nelle circostanze più disparate. Le cose che rendono impossibile lavorare sono il telefono e la gente che passa a trovarti.
È necessario essere emotivamente stabili perché la scrittura sia buona? Una volta lei mi ha detto che riesce a scrivere bene solo quando è innamorato. Potrebbe spiegarci meglio questa sua tesi?Che domanda! Comunque 10 e lode per averci provato.. Si può scrivere solo quando la gente ti lascia in pace e nessuno t’interrompe. O meglio, quando si è risoluti a farlo. Sì, sicuramente quando si è innamorati si scrivono le cose migliori, ma se non ha niente in contrario preferisco non scendere in particolari.
E la sicurezza economica? Può essere controproducente in termini di creatività nella scrittura?Se la si raggiunge presto e si ama la vita quanto la scrittura, allora ci vorrà una buona dose di carattere per resistere alle tentazioni. Una volta che scrivere è diventato il tuo peggior vizio e il piacere più grande , solo la morte potrà fermarti. Da questo punto di vista la sicurezza economica è un grande vantaggio perché ti toglie molte preoccupazioni, e le preoccupazioni distruggono la capacità creativa. La cattiva salute è fonte di preoccupazioni che attaccano il subconscio e annientano le riserve di energia.
Si ricorda il momento esatto in cui decise di diventare una scrittore?No, ho sempre voluto fare lo scrittore.
Philip Young, nel libro che le ha dedicato, ipotizza che lo choc di quando nel 1918 lei fu ferito da un corpo di mortaio abbia avuto una forte ripercussione sulla sua scrittura. Ricordo che a Madrid lei accennava a questa teoria dandovi poco credito perché, diceva, l’artista non acquisisce un bagaglio di conoscenze, ma, in senso mendeliano, lo eredita.
Evidentemente quell’anno a Madrid non ero granché lucido. Per fortuna mi sono limitato a fare qualche accenno al libro di Young e alla sua teoria della letteratura. Forse, in quell’occasione, con la commozione celebrale e la frattura al cranio mi sono lasciato andare ad affermazioni azzardate. Quello che ho detto, e lo ricordo bene, è che, a mio parere, l’immaginazione è il risultato di esperienze ereditate, ancestrali. Credo che tra le chiacchiere post-trauma non suonasse affatto strano, ma è una constatazione che va considerata in quel contesto. A ogni modo, fino al prossimo incidente, lascerei stare, d’accordo? La ringrazio comunque per aver omesso i nomi dei parenti che forse avevo tirato in ballo. La cosa divertente di quando si parla è che si va a fondo, ma forse è meglio non mettere per iscritto teorie infondate che poi bisogna difendere. Per quanto riguarda la sua domanda, gli effetti delle ferite possono variare molto. Ferite lievi, senza fratture, hanno conseguenze limitate, qualche volta danno perfino sicurezza. Ma quelle che danneggiano le ossa o i nervi non hanno alcun effetto positivo né sugli scrittori, né su chiunque altro.


















TECNICHE E STRUMENTI.....




Per metodi qualitativi si intende un insieme di tecniche utilizzate in ambito disciplinare, in primis ricerca sociologica senza l'ausilio di formule, modelli matematici
Il principio di base, per gli studiosi che fanno uso di tale insieme di tecniche, è che non è importante descrivere o prevedere qualcosa in relazione a grandi numeri, quanto piuttosto voler indagare in modo molto approfondito un singolo aspetto, caso, questione, cercando di ottenere quante più possibili informazioni in merito, considerando anche dimensioni che non potrebbero essere considerate con tecniche quantitative, come per es., il linguaggio non verbale, emotività e via dicendo.
Rientrano nei metodi qualitativi le seguenti tecniche/strumenti:
  1. interviste strutturate, semi strutturate e non strutturate
  2. osservazione partecipante
  3. osservazione a distanza
  4. focus group
1) L'intervista è uno degli strumenti più importanti del metodo qualitativo. Seguendo una traccia di domande predefinita, dove il margine di autonomia dell'intervistato (o informatore) è nullo, si dice che l'intervista è "strutturata". Seguendo una traccia predefinita, ma permettendo all'intervistato di muoversi in modo meno limitato, quindi senza seguire in modo stringente la traccia, si dice che è "semi-strutturata". Quando l'informatore ha ampio margine di libertà, perché l'intervistatore pone una o due domande senza interrompere, si parla di intervista "narrativa" o "non-strutturata". 
2) L'osservazione partecipante è una tecnica molto importante tipica dell'antropologia culturale che vede il ricercatore immerso nel contesto da lui studiato. L'osservatore partecipa attivamente alla vita quotidiana della società che studia, del gruppo che indaga, si finge parte integrante di esso, ne osserva le dinamiche dall'interno e si sforza di individuare, comprendere e spiegare, i meccanismi taciti e le regole/norme che determinano l'agire dei soggetti.
3) L'osservazione a distanza è una tecnica di osservazione che non prevede la sovrapposizione dei ruoli di ricercatore con membro effettivo del gruppo/società in oggetto di studio. In questo modo si mantiene un distacco cognitivo ed emotivo rispetto all'oggetto di studio, salvaguardando, per quel che è possibile, l'idea di "oggettività" che, a detta dei critici degli approcci di osservazione partecipante, rappresenta il più importante punto debole dell'approccio qualitativo.
4) Focus group: c'è un moderatore che propone un argomento di discussione ad un gruppo di persone (5-12 al massimo) scelte sulla base di caratteristiche attinenti alla ricerca che si sta svolgendo. La discussione è ripresa da telecamera, per analizzare anche tutto l'aspetto di, e per cogliere le dinamiche di gruppo che si vengono a creare. Il ruolo del moderatore può essere più o meno attivo.

mercoledì 28 agosto 2013

Intervista narrativa a Pepita Vera Conforti






La prima intervista effettuata si è svolta con la formatrice Pepita Vera-Conforti il 12 maggio 2006 alle 11.30. Essendoci date appuntamento all’interno del Lifi Pepita ci ha proposto una saletta riunioni accanto alla sua postazione di lavoro usuale che però resta uno spazio di lavoro condiviso e quindi non molto intimo e silenzioso. La saletta riunioni era invece un setting appropriato e di gradimento dell’intervistata stessa che ce lo ha subito proposto come spazio a lei più congeniale. Anche la semplice disposizione intorno ad un tavolo rettangolare non è stata però delle più semplici. Avendo inoltre deciso che sarebbe stata solo una di noi a porre le domande, le altre due hanno fatto da uditori e supervisori del lavoro della collega, sentendosi libere di porre delle domande alla conclusione dell’intervista ed abbiamo optato perché fosse la intervistatrice che faceva le domande a stare di fronte all’intervistata, cercando di non creare né un effetto di accerchiamento né di eccessiva distanza con la narratrice, cercando anche di occupare spazialmente l’angolo di comunicazione privilegiato cercando di applicare al meglio i fondamenti di psicologia spaziale. L’intervistata da canto suo si è dimostrata subito disponibile e collaborativa e non ha mostrato eccessiva emozione né alcun disagio alla vista di ben due registratori mp3 pronti ad immagazzinare le sue memorie. Abbiamo potuto così cominciare a registrare fin dalla spiegazione in breve dello scopo dell’intervista e della sua modalità di svolgimento e dopo aver risposto ad una richiesta di delucidazione su di un aspetto procedurale da parte della protagonista, che si è dimostrata fin dal principio molto attenta ed interessata, ha avuto luogo l’intervista narrativa vera e propria che è durata circa un’oretta. Qui di seguito sono riportati alcuni spezzoni rilevanti rispetto all’esperienza della modalità dell’intervista narrativa ed all’emergere di aspetti significativi per la protagonista attraverso le storie raccontate dalla medesima:


L’EVOLUZIONE PERSONALE ENTRO UN ORIZZONTE CONOSCIUTO “Allora ho messo più elementi perché non è mai un elemento solo che ti spinge a fare una cosa e diciamo che in un certo periodo della mia vita si sono messi in moto tutta una serie di motivi: uno, dicevo, da qualche parte il ragazzo cresceva e quindi c’era la necessita, la spinta di dire “mi rimetto in gioco dal punto di vista professionale”, dall’altra comunque una direzione (presa)5, comunque ho frequentato scienze della educazione per cui andavo nella direzione della formazione, per cui da qualche parte che è sempre stato il punto di contatto con quello che ho fatto a livello professionale. Dall’altra le nuove tecnologie, sicuramente mio marito mi ha introdotto in questo mondo perché è sempre stato un autodidatta, voglio dire, ha fatto anche lui la magistrale ma quello che ha a che vedere con la programmazione, con la la... internet le nuove tecnologie, è sempre stato un bravo autodidatta e ha imparato da solo, quindi mi ha un po’ introdotto (...) e da un lato comunque da sempre, cioè da quando ho 14 anni, quando cominci a farti delle domande, la questione di genere ha sempre giocato in modi diversi. Da una parte il momento rivendicativo di opposizione il momento di di denuncia, ecco passando da questi aspetti che son la storia di questi ultimi 30 anni, questi momenti storici e culturali, da qualche parte sono arrivata alla conclusione che bisognava trovare altre strade, altri modi, insomma...che non entrassero in un conflitto ma insomma che permettesse alle paro(le)...alle persone di esprimere quello che poi sono, riconoscendosi però come generi femminili ecco per cui da qualche parte combinare questi diversi modi che poi adesso abbiamo (nel progetto/i) è per me un sogno ecco un sogno realizzato veramente.”

Possiamo notare come per Pepita il cambiamento sia giunto per un bisogno personale di crescita ad un certo punto della sua vita, senza però stravolgerne le basi significative anzi facendo tesoro delle esperienze pregresse. Qui è rilevante il suo tentativo di definire le scelte che l’hanno spinta ad evolvere delineando come elementi chiave i molteplici aspetti di influenza (interessi personali, riflessioni sulla questione di genere e sul femminismo sin dalla fanciullezza, le scelte professionali, il contesto sociale, culturale e storico di riferimento) e le sue relazioni significative più intime (marito, figlio che cresce). Si nota subito in che modo e perché l’approccio di ricerca qualitativa si traduce in strumento di apprendimento e sviluppo della persona (Schoen, 1993): fin dal principio grazie alla modalità narrativa Pepita riorganizza il suo vissuto e cerca di darvi un senso per far emergere attraverso la molteplicità degli avvenimenti l’unità del suo Io e per chiarirne l’evoluzione. La formatrice riflettere mentre racconta e così comprende che è proprio
grazie alle esperienze vissute, ai percorsi intrapresi, alle riflessioni passate ed al contesto in cui è immersa, che oggi è una persona con una certa sensibilità ed apertura al cambiamento, vivendo in prima persona una spinta verso l’esplorazione della zona prossimale di sviluppo (Vygotzkij, 1980). Un altro aspetto rilevante è il suo sentirsi realizzata nel lavoro, avendo potuto applicare le sue energie e sforzi lavorativi (i progetti Arianna e Wisegirls) ad un campo di riflessioni che sono una costante per lei fin dalla prima giovinezza (ad esempio la questione delle pari opportunità), dandovi una forma concreta di sviluppo. Ciò che emerge con una certa ricorrenza nel corso della narrazione è anche un altro importante aspetto, legato alla domanda di cosa sia davvero importante per l’intervistata nel suo lavoro:


DIMENSIONE RELAZIONALE “Allora diciamo, io ho elencato famiglia, marito quindi c’è un elemento che non ho ancora citato... che ad un certo punto questo è stato possibile perché per alcuni motivi molto, ogni tanto dico magici, alchemici, non si sa bene perché, ci siamo trovate con Giuliana, Paola io e c’erano anche altre persone che però per motivi diversi avevan lasciato. È chiaro che questa combinazione, queste esperienze molto diverse anche magari nelle aspettative... però ci siamo trovate e a quel punto il fatto di poter condividere queste idee questo modo di agire di procedere è stato certamente una delle spinte più importanti per cui se voglio dire quel che conta per me adesso del lavoro è poter... poter lavorare con loro ecco, forse questa è ancora una caratteristica femminile no? Il fatto di di mettere comunque al primo posto le relazioni, di lavorare con persone con cui stai bene, con le quali puoi aver conflitti, -non sempre siamo d’accordo ma sappiamo che abbiamo sufficiente fiducia l’una dell’altra da poter trovare assieme delle soluzioni e delle vie di di... da percorrere assieme

Pepita anche durante la revisione della trascrizione insiste molto su questo punto: l’importanza della relazione e del senso di appartenenza per un buon funzionamento di una equipe, del suo team. Il senso di condivisione di progetti, idee emozioni pur avendo background diversi e differenti aspettative le fa comprendere che ciò a cui lei si sente intimamente di dare più importanza non è tanto il contenuto del lavoro, gli oggetti e gli obbiettivi a cui i progetti si applicano ma è la stessa relazione con le sue colleghe ed amiche a dare qualità a ciò che si produce, indifferentemente dal contesto applicativo o dal prodotto finale. Dando questo tipo di definizione all’importanza che ha per lei il lavoro si nota come il valore che lei gli attribuisce è intriso anche di una considerazione legata a riflessioni precedenti forse ancora più radicate, per cui per lei la relazione ha importanza in quanto “donna”, riconoscendo quindi questo attributo (la preponderanza della relazione sugli stessi contenuti) come appartenente più alla sfera del genere femminile, che a quella maschile. Pepita quindi attraverso la narrazione torna a riflettere sugli aspetti per lei significativi, sui quali si interroga da sempre, cercando nuove attribuzioni di senso e risposte in un percorso aperto e dialogico con noi ma soprattutto con se stessa. “Gli schemi di attribuzione di significato sono il risultato di un processo di acculturazione (Callari-Galli, 1992); processo che consente ai soggetti di sentirsi parte di una determinata cultura. Essi sono, al tempo stesso, la risultante del percorso storico-biografico (Schuerch, 2006, p. 27). Col manifestarsi di un vero e proprio processo riflessivo (Schoen, 1993; Deitering, 1995) in atto la stessa narratrice tocca in più punti del suo narrato l’importanza che lei attribuisce all’interno del suo lavoro alla dimensione della co-costruzione ad esempio nella realizzazione del Percorso Arianna:


CO-COSTRUZIONE “Dove Guliana ha portato l’idea di promuovere una formazione un percorso, più che altro una formazione formativa utilizzando la piattaforma e da lì tutto ha cominciato a crearsi, quindi la microimprenditorialità, come agire per arrivare lì, quali competenze. Per cui c’è stato un gran costruire per costruire...eh, davvero metter sul tappeto tutte le nostre idee riguardo a, per esempio, la microimprenditorialità, a cosa vuol dire competenze, a cosa vuol dire un linguaggio femminile, cosa...ecco ed è stato interessante proprio questo processo di quasi quasi spezzettare tutto per poi ricostruirlo e vedere che le cose crescevano (...). In questo senso anche la difficoltà è un’occasione - prima hai citato la parola della co-costruzione - ma è proprio co-costruire. Perché è vero, che spesso noi ci accorgiamo che quando progettiamo, che alcune idee che escono sono il frutto non tanto il frutto di Paola Giuliana o mia ma sono il frutto della collaborazione di tutte e tre: cioè un’idea fa scattare un’idea a un’altra che fa scattare un’idea a un’altra che fa scattare ...fin quando a un certo punto tutte e tre condividiamo che quello che è uscito è la proposta giusta eeeee tutte e tre alla fine ci guardiamo con quella soddisfazione del sapere: ‘Ecco quest’idea fossi stata lì non mi sarebbe venuta oppure mi sarebbe venuta ma non con quelle sfumature quell’entusiasmo!’ ”

Fin dalle prime righe dello spezzone selezionato emerge il concetto di “appropriazione partecipata” che si riferisce alla modalità in cui “l’individuo modifica il suo comportamento attraverso il suo coinvolgimento in una attività e attraverso il quale si prepara spesso allo svolgimento di attività diverse ma in relazione con la prima.(...) Invece di considerare l’appropriazione come un processo di internalizzazione nel quale qualcosa di statico è portato dall’esterno all’interno, si considera la partecipazione attiva come la pratica essenziale attraverso la quale si raggiunge la competenza nello svolgimento di una attività” (Zucchermaglio, 1996, p.71) Pepita riconosce nel gruppo una forte coesione, equilibrio, entusiasmo ed unità di intenti che portano le tre formatrici pur essendo molto diverse tra loro ad una co-costruzione di saperi ed esperienze delle quali ciascuna riconosce il merito in parti uguali, senza prevaricazioni. Nonostante la consapevolezza della forza che emerge da un gruppo solido e coeso Pepita ha anche voluto sottolineare che la sua sfera di affermazione personale non si limita entro il riconoscimento del team, delle colleghe e delle donne partecipanti ai progetti ma che è ben presente nella sua personalità l’aspetto individuale, che si consolida attraverso una serie di esperienze, non solo nel campo lavorativo ma anche in quello politico o sociale in senso lato. Tutti gli apprendimenti derivati dalle diverse esperienze sono dunque trasferibili da un contesto di applicazione ad un altro con una certa flessibilità.

Piccolo estratto di intervista....







..."Questo aspetto di chiarificazione è stato fondamentale perché le intervistate potessero avere la chiara percezione di presiedere un ruolo centrale e preponderante nel corso dell’intero sviluppo della propria personale narrazione, entro un clima rassicurante e di fiducia reciproca scaturito dal patto prestabilito tra narratrice ed intervistatrici. Abbiamo inoltre ricordato alle formatrici la loro possibilità di revisionare, commentare, modificare e perfino eliminare parti della trascrizione finale. Pepita, Giuliana e Paola sono state intervistate in quest’ordine e una alla volta in giorni diversi, venendo premunite di una scaletta indicativa del tipo di domande poste. Fin da subito noi intervistatrici ci siamo rese conto dell’importanza della comunicazione che da formale è diventata sempre più colloquiale man mano che si instaurava un rapporto di maggiore confidenza ed apertura e dell’impegno nel mantenere una relazione ben curata ed attenta anche a distanza (come scrivere le mail, tenere conto dei loro suggerimenti, degli appuntamenti e delle rispettive disponibilità per la realizzazione delle interviste nelle modalità più confacenti per entrambe le parti, mantenendo sempre vivo l’entusiasmo ed il feedback reciproco). Un altro elemento fondamentale è stata la scelta del setting: Pepita e Giuliana hanno preferito farsi intervistare nel loro ufficio al LIFI in una saletta riunioni appartata e silenziosa mentre Paola non avendo quel giorno la possibilità di accedere alla stessa stanza, ha preferito farsi intervistare nel giardino dell’Università lì vicino. In entrambi i casi è interessante notare che le formatrici hanno prediletto un luogo per l’intervista a loro molto familiare e lontano da orecchie indiscrete e che ciò ha poi molto favorito l’apertura alla narrazione del loro vissuto. Le domande a loro poste, preventivamente selezionate dalle ricercatrici prendendo come riferimento teorico il testo di Atkinson, sono state di questo tipo:
  • -  Chi sei e come ti vedi in questo periodo della tua vita all’interno del tuo ambito lavorativo?
  • -  Che cosa conta per te nel lavoro?
  • -  In relazione a Percorso Arianna, quali erano le tue aspettative prima di questa 
    esperienza, quali si sono realizzate e cosa continua a darti nel tuo vissuto 
    personale? 
  • -  Ti senti una persona diversa rispetto a prima di cominciare questa 
    esperienza? Se sei cambiata, racconta in che modo e se questa esperienza ti ha dato qualcosa in più. 
    Ad ogni modo, avendo voluto mantenere il più possibile la narrazione delle formatrici libera di fluire, pur toccando tutti i punti da noi ritenuti i più importanti, sono emerse durante la narrazione anche altre domande poste in maniera spontanea, sentendoci sempre più coinvolte dall’esplicitazione del vissuto delle protagoniste, che ovviamente non potevano essere previste. Il nostro ruolo era infatti stato messo ben in chiaro: 
  • -  Lasciarle libere di esprimersi, porci quindi in una posizione di ascolto attivo;
  • -  Fare da contenitore della loro narrazione e contenerle per evitare divagazioni;
  • -  Aiutarle a focalizzare e sviluppare certi punti di riflessione nel loro emergere;
  • -  Procedere ad una significativa co-costruzione del sapere assieme alle nostre 
    protagoniste, attraverso la narrazione e la metariflessione. 
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  • -  Fungere da specchio alle loro riflessioni, permettendo loro di riflettere attraverso un punto di vista esterno (principio di realtà) anche sui non detti o sulle parti in ombra dei racconti personali.
  • Renderle consapevoli della loro centralità anche nelle successive fasi di stesura ed interpretazione delle interviste narrative, con una continuativa richiesta di feedback e riscontro/opposizione negli aspetti da noi evidenziati come possibile zona prossimale di sviluppo. 
    Nel prossimo capitolo presenteremo brevemente il Percorso Arianna, i suoi obbiettivi le varie tappe che lo compongono e le formatrici Giuliana, Pepita e Paola che contribuiscono al suo svolgimento. In seguito, avvieremo la parte interpretativa di questo lavoro con l’intenzionalità di far emergere dalle interviste alcuni elementi teorici trattati durante il corso, come il processo riflessivo, l’aspetto del transfert, il sentimento di autoefficacia, l’importanza del cambiamento e il potenziale di apprendimento."... 

lunedì 26 agosto 2013

Alcune precisazioni...





Per meglio comprendere cosa si intende per intervista narrativa vogliamo definire prima di tutto in cosa consiste il materiale che tale intervista permette di raccogliere. Guardando alla letteratura che utilizza un approccio di tipo narrativo cominciamo ad individuare tre principali tipologie di materiali di ricerca (Atkinson, 2002):
- La story, un breve racconto in prima persona in cui un individuo racconta un’esperienza della sua vita in relazione ad uno specifico tema prestabilito dal ricercatore. La life story, la storia di vita del singolo che narra la propria esperienza lungo tutto l’arco della sua esistenza o un periodo significativo di essa.
-La history, la cronaca, un racconto non più in prima persona ma in terza in cui il ricercatore racconta l’esperienza di un individuo utilizzando le proprie parole.
Ciascuna produzione di questi materiali presenta “una modalità di scambio dialogico alla base tra il ricercatore ed il soggetto che ha vissuto l’esperienza che può essere definita intervista narrativa” (ivi, p. X), intesa come un “colloquio finalizzato alla raccolta di storie” (ibid.). In quest’ambito vediamo il ricercatore nel ruolo dell’intervistatore ed il soggetto nel ruolo di intervistato.
Rispetto alle consuetudinarie tecniche di osservazione dell’individuo, l’intervista narrativa evidenzia una sua particolare peculiarità, sfuggendo alla “tradizionale classificazione delle modalità di conduzione dei colloqui” (Atkinson, 2002, p. XI), che pone una distinzione tra intervista strutturata, ed è inoltre caratterizzata da tre aspetti principali:
1. Il ruolo attivo dell’intervistatore, che sceglie quando e come intervenire a sostegno del racconto con sollecitazioni che mirano di volta in volta a focalizzare, approfondire, amplificare il discorso. L’intervistatore non ha un ruolo neutro ma partecipa alla costruzione del materiale di ricerca in modo consapevole per migliorarne la qualità e non stravolgere allo stesso tempo il contenuto (Atkinson, 2002).
2. La durata dell’interazione, che richiede un tempo variabile in genere tra mezza giornata e tre giornate in cui l’intervistato attinge alle proprie memorie in modo approfondito con la possibilità di tornare sui suoi pensieri, di modificare la versione dei fatti ed integrarla con nuovi elementi ma anche di divagare, creare collegamenti a piacere o stare semplicemente in silenzio (ibid.).
3. La definizione del formato del materiale atteso dall’intervistatore, che rende esplicita la consegna all’intervistato di raccontare episodi della propria esperienza che considera significativi in riferimento all’oggetto di ricerca. 

venerdì 9 agosto 2013

L'interpretazione

Così come l'intervista non si riduce al semplice azionamento del registratore, l'interpretazione dell'intervista non si riduce assolutamente alla sua trasposizione in forma scritta. Il fine ultimo dell'indagine in forma scritta.. Il fine ultimo dell'indagine in forma narrativa sulla vita umana è l'interpretazione e l'esperienza;ma si tratta di un discorso complesso, perchè sia l'interpretazione che l'esperienza sono termini fortemente relativi. Dunque è la soggettività che domina il processo di narrazione autobiografica: una ricerca di significato attraverso l'interpretazione, che si contrappone agli approcci della sperimentazione scientifica, la cui finalità è di scoprire delle leggi. L'interpretazione concerne essenzialmente il significato e la validità, ma c'è una complicazione: il significato e la validità della narrazione autobiografica non sono necessariamente gli stessi per il narratore e per colui che ha raccolto l'intervista.